Il Decamerone in Fonderia
Il capo fonderia fin dai tempi di Ferdinando Marinelli Sr. fondatore della Fonderia Artistica omonima, è stato Miniato Miniati (fig. 1, 2, 3, 4, 5 6) personaggio specialissimo. Il lavoro in fonderia per Miniato era una missione: passava più tempo in fonderia che non a casa. Ferdinando Marinelli Sr. gestiva la Fonderia in maniera patriarcale (fig. 7, 7a), come in una bottega rinascimentale. Miniato era anche un grande narratore, non si stancava mai, mentre lavorava, di raccontare al giovanissimo nipote Ferdinando Marinelli Jr che frequentava spesso la Fonderia (fig. 8), le storie e le burle avvenute tra gli artigiani, ma anche con gli scultori che frequentavano quell’ambiente. Erano burle naif, di sapore medievale, come usava tra i lavoratori e artigiani degli inizi del ‘900.
La burla più lunga e complessa fu quella fatta ad uno dei lavoranti, Angiolino (fig. 9, 10, 11). Era un operaio vecchio, gobbo, segaligno, con un corpo duro come il muro, tirchio in maniera patologica. Un giorno, nel parlare, il ritoccatore di cere Piero cominciò a dire che lo stipendio non gli bastava più, che si doveva sposare, e cose simili. Per più giorni continuò con questa solfa. A un certo punto aggiunse che doveva cercarsi un doppio lavoro da fare la sera e le domeniche, e continuò così per una quindicina di giorni. Poi si chetò e non disse più nulla per qualche settimana. Un giorno Angiolino gli chiese “che l’ha trovato quell’altro lavoro?”, e Piero disse di sì. E basta. Insomma tanto fece che Angiolino non stava più nella pelle dalla curiosità. E cominciò a chiedergli che lavoro aveva trovato, cosa faceva, quanto guadagnava. E Piero rispose che aveva trovato una rappresentanza di casse da morto, e che si guadagnava benino. La cosa andò avanti per un altro mesetto. Un giorno Piero si rivolse ad Angiolino e gli disse “volete risparmiare? C’ho una cassa d’occasione. L’è usata, ma l’hanno usata poco, il morto l’hanno levato subito. E costa un terzo di quelle nove. Ve la vendo a poco.” Angiolino lì per lì disse “un la voglio, accidenti a te!”. Ma Piero insisteva “tanto tra un po’ la vi ci vole”. E Angiolino “speriamo tardi”. E Piero “Presto o tardi, ma la vi ci vole. E nova spendete un capitale. Questa non costa quasi nulla, e l’è della vostra misura”. “Non la voglio! E poi in dove la metto”. “La mettete sotto il letto”. “Ma un c’ho soldi!”, “io ve la do e voi me la pagate un po’ per volta, così quando morite l’è bella pagata”. Insomma lo convinse. E dopo averlo convinto e pattuito il sistema di pagamento tutti si misero a ridere e gli dissero che era uno scherzo. “Accidenti a voi e a chi v’ha fatto nascere” disse Angiolino arrabbiatissimo, si levò la giacca da lavoro e andò via, e per una settimana non tornò a lavorare.
Miniato amava raccontare di una sua terribile malattia: gli capitò di bere dell’acqua da una fonte da cui bevevano tutti, e gli venne il tifo. Lo portarono all’ospedale, gli aprirono la pancia, gli tirarono fuori tutte le budella, le misero a bagno nello spirito per disinfettarle, gliele rimisero a posto, e guarì. E voleva che tutti, in fonderia e fuori, gli credessero, altrimenti cominciava ad urlare arrabbiandosi terribilmente.
Il cesellatore che tutti chiamavano per cognome “Tucci” (fig. 12, 13, 14) era un attore amatoriale, e a volte durante le ore di lavoro creava piccole commedie. Una volta gli fu chiesto dagli altri di organizzare, durante le ore di lavoro, una piccola rappresentazione teatrale in fonderia. Gli proposero una commedia in cui da dietro la scena il protagonista doveva recitare alcune frasi, per poi entrare in scena. Il Tucci disse che senza sipario non si poteva fare, ma gli risposero che lui si poteva nascondere nell’armadio della sua stanza, e uscire al momento giusto in “scena”. Quando entrò nell’armadio, gli altri lo chiusero a chiave, recitarono la loro parte, e quando fu il momento di farlo uscire cominciarono a far finta che la serratura si fosse inceppata. E in questo modo lo tennero dentro un paio d’ore. Uscì arrabbiatissimo, anche perché, essendosi sposato una certa Rovini, continuarono la presa in giro dicendogli che la sua compagnia teatrale era la “tu-cci rovini”.
Dante (detto Dantino a causa della statura) (fig. 15, 16) un’altro operaio formatore, si era portato per desinare un uovo da fare sodo, insieme a mezzo filone di pane e al litro di vino. Gli presero di nascosto l’ uovo, gli fecero i due buchini canonici, glielo bevvero, glielo riempirono di gesso e stuccarono sempre col gesso i due buchini. Dantino, all’ora di pranzo, prese l’ uovo e lo mise a bollire nel pentolino. Poi lo tirò fuori dall’acqua e lo sbucciò. L’ uovo era bello bianco e compatto. Mangiò un morso di pane e addentò l’ uovo. La conseguenza è facilmente immaginabile. Prese il coltello da formatura e voleva accoltellare tutti. Il ritoccatore di cere Piero, abile cuoco, calmò le acque perché intanto aveva fatto una grande pentola di pastasciutta, e si misero tutti a mangiare insieme.
Ezio (fig. 17, 18) era un manovale molto primitivo che dava poca confidenza, parlava poco e in modo non ben comprensibile. Bestemmiava, oppure grugniva. Aveva la faccia scimmiesca, la bocca era una fessura senza labbra. Era di idee anarchico comuniste. Dimostrava la sua simpatia per qualcuno tirando leggermente all’insù un lato della bocca quando lo vedeva, in quello che doveva essere un accenno di sorriso.
Un giorno, mentre aveva in mano un coltello, fu colto da un raptus e si avventò contro mio zio Aldo. Accorsero tutti e lo bloccarono. Gli fu chiesto il perché del gesto, e la risposta fu un paio di bestemmie seguite da “parla troppo”.
Le burle non risparmiavano nessuno, nemmeno al giovanissimo Ferdinando Marinelli Jr.: fu mandato dal mesticatore di piazza Dalmazia a comprare un etto e mezzo d’ “ombra di campanile”. Ferdinando andò contento pensando che si trattasse di una qualche sostanza che veniva adoprata nelle cere o per le patine. Del resto in fonderia adopravano il “fegato di zolfo”, la “polvere di micio”, la “colla di pesce”, la “pece greca”, la “gommalacca degli angeli”, lo “spirito”, il “carburo”, la “borace”, il “cinabrese”, il “sale di cadmio”, e non c’ era nessun motivo quindi per un bambino di pensare che non adoprassero anche l’ “ombra di campanile” come colorante o simile. Sapeva infatti che esisteva la “terra di Siena” e la “terra di Siena bruciata”. Pensò che se qualcuno bruciava Siena per ottenerne della terra di colore speciale, poteva chiamare ombra di campanile qualche cos’altro. Andò dal mesticatore, dicendo che lo mandavano dalla Fonderia Marinelli per un etto e mezzo di ombra di campanile, e mostrò i soldi che gli avevano dato. Il mesticatore rimase perplesso, non sapeva cosa fosse l’ ombra di campanile. Gli chiese “ma t’hanno detto proprio così, sei sicuro che vogliono l’ ombra di campanile? Non vorranno mica un’ altra cosa, non vorranno mica la terra d’ ombra?” Ferdinando insisteva sull’ombra di campanile. “Non ce l’ ho, ma sento il rappresentante” fu alla fine la risposta. Quando tornò in fonderia a raccontare quello che gli aveva detto il mesticatore, allora sì che tutti si ripiegarono dal ridere, perché la burla era stata fatta, non volendo, al mesticatore. Allora gli dissero “prova a vedere se almeno c’ ha 30 grammi di “baffi d’acciuga”. Il ragazzo tornò, chiese i baffi d’acciuga, e allora la burla si scoprì, e il mesticatore, rosso di vergogna e imbarazzato gli disse “vien via bambino, non s’ha mica tempo da perdere!”. Il ragazzo pensò che quel mesticatore non fosse per niente fornito, e che non capisse un gran che. Tornò in fonderia, e di nuovo tutti a ridere. Allora anche Ferdinando cominciò a sospettare qualcosa. Ma era così ingenuo che agli operai toccò spiegargli lo scherzo, ma non capiva, e la burla nei suoi confronti sfumò. Da quel giorno il mesticatore era quello dell’ombra di campanile.